Amatissima - Toni Morrison
Uno dei
miei piaceri più grandi è scoprire un nuovo (per me) scrittore attraverso un
altro scrittore che lo cita o ne parla, suscitando la mia curiosità: è come
scartare un cioccolatino con un involucro scintillante e colorato.
Questo è stato il caso di Toni
Morrison, pseudonimo di Chloe Ardelia Wofford nata a Lorain
il 18 febbraio 1931 e morta a New York il 5
agosto 2019, a me totalmente sconosciuta, ammetto la mia profonda
ignoranza, citata da James Patterson in uno dei suoi gialli. Ne ho cercato
subito notizie, perché stimo molto il personaggio che la nomina nel libro di
Patterson, che mi ricorda mia nonna.
Scrittrice e accademica, Premio
Pulitzer (1988), prima afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura
(1993). Un curriculum di grandissimo rispetto, conseguito in un periodo, si
guardi la data di nascita, in cui essere afroamericana e donna ti collocava
subito in fondo alla coda di coloro che volevano accedere a qualche forma di
istruzione, per non parlare di un impiego qualificato. La sua assoluta assenza
dalla sfera delle mie conoscenze mi ha umiliato e mi ha confermato una volta di
più che ho ancora tanto da imparare.
Ho cercato i suoi libri, ho letto la prima
opera, “L’occhio più azzurro” e poi il romanzo che le è valso il
Pulitzer, “Amatissima”. La
scoperta è stata devastante. Nel drappo blu che avvolge la mia mente e da cui la
luce filtra attraverso i buchi creati dai libri letti, si è aperta una larga
fenditura, come tagliata da un’accetta, da cui la luce è entrata a fiotti. I
temi trattati sono ovvi, per un’afroamericana: crudeltà della schiavitù, negazione
dei diritti umani, condizioni di povertà e ignoranza in cui si sono trovati gli
schiavi “liberati” dopo la guerra di secessione, orrori ancora più sofferti
dalle donne, in quanto ultimo anello della catena delle sopraffazioni. Ovvi,
appunto. La banalità del male. Ma la trattazione non lo è. La Morrison ti
scioglie la pelle, così importante e così citata nei suoi romanzi, scioglie i
confini del tuo io, della consapevolezza che hai di te e della tua sicurezza, e
poi ti inserisce in una pelle nuova, un nuovo confine tra te ed il mondo, che
percepisce, subisce, assapora tutto in modo diverso, intenso e doloroso. La sua
scrittura ti versa in una membrana che riceve mille stimoli, tutti eccessivi. I
colori, i sapori, gli odori contribuiscono ad inasprire il dolore provocato dal
male, che subisci perché lo senti come tuo, e che vedi subire. Scopri nuovi
aspetti della crudeltà che non avevi sospettato, immaginato, creduto possibile.
La schiavitù è la sopraffazione violenta del più povero, del più debole, del
più ingenuo e, viceversa, la sopraffazione violenta, non importa attraverso
quali strumenti, è schiavitù. Prima, sapevi che la schiavitù è crudele in modo
asettico, generalizzato, sfocato. Dopo, attraverso i tuoi nuovi pori,
percepisci i particolari dell’orrore e della paura. Il diavolo è nei dettagli:
Il morso di metallo che hai in bocca ha un sapore metallico e amaro, ti ferisce
la lingua, ti irrita i lati della bocca e, una volta tolto, ti blocca il viso
in una specie di sorriso sciocco; piccole cose della vita quotidiana, la
zangola del burro, il gallo con la cresta rossa, un certo cappello, un certo quaderno,
i mirtilli selvatici, entrano nel tuo riposo notturno e si trasformano in
incubi.
La paura, sempre presente, sempre subliminale, di essere “riportato
indietro” ti fa scattare, ti fa correre, ti fa uccidere, ti fa fare cose che
non credi possibili, che non riconosci, che non ricordi. Si entra in una
sindrome da stress postraumatico lunga tutta una vita e trasmessa ai figli e ai
nipoti, piena di dettagli insignificanti che, come i pezzetti di carta colorati
di un caleidoscopio, si moltiplicano e creano immagini impressionanti.
Gli
schiavisti, i “bianchi”, non sono volutamente crudeli, non hanno il sadico
desiderio di infliggere dolore, ma la fredda ed efficiente avidità che muove le
loro azioni li rende agghiaccianti. Imprigionati nella loro pelle
bianca e refrattaria, sono sordi e ciechi come certi vermi che vivono nelle
profondità delle caverne; sordi e ciechi alle sofferenze altrui, al male che
fanno, inconsapevoli della fossa di fango, di un metro per due, in cui è
imprigionata la loro anima: per loro non basteranno il canto degli uccelli e la
pioggia scrosciante per farli evadere. Il dolore che seminano metterà radici e
produrrà un albero come quello sulla schiena di Sethe, un albero immenso i cui rami si estenderanno
attraverso le generazioni.
Toni Morrison riesce a farti vivere la schiavitù e
l’esperienza è terribile e illuminante allo stesso tempo.
L’acqua del fiume, la pioggia, il sole, le stagioni, la foresta,
le lacrime, il sangue, persino i succhi delle erbe schiacciate, contribuiscono ad
una narrazione di tipo biologico, animistico, della Storia, accogliendo e
inglobando al suo interno tutti gli aspetti, il male e il bene, il dolore e la
gioia, la sofferenza e la pace, assimilandoli e creando vita vera. Niente
potrebbe essere più femminile.